Robert Olson

Il flusso sanguigno non si era mai rivelato così veloce e così abbondante. Il sudore umidificava ormai tutto il viso e la paura di poter rovinare tutti gli accorgimenti estetici che lo avevano impegnato dalla prima mattina contribuiva probabilmente a farlo sudare ancora di più. Le mani e le gambe avvertivano un leggero tremolio, come una foglia d'autunno esposta al tempestoso vento dell'Illinois.
Eppure lui, Robert Olson, era abituato a parlare in pubblico, anche se forse mai aveva subito una pressione che interessasse non una piazza, neppure una città, né uno stato, nemmeno un continente ma il mondo intero.
"Che bella che era l'America" pensava. Con un ultimo sguardo all'orologio e un felino balzo, uscì dalla camera del Campidoglio in cui si era rifugiato per sistemarsi, ancora una volta l'abbigliamento. Vedeva, come fosse una trasmissione televisiva con i sottotitoli in sovraimpressione, le parole che di lì a poco avrebbe dovuto pronunciare. Rimbombavano, nel loro impetuoso significato. "I will support and defend the Constitution of the Unite..."
Aprì la porta e il rumore esterno lo destò dai suoi tormentati pensieri.
Cercò la fedele collega, nonché prossima Presidente degli Stati Uniti, Victoria Grant, ma non la trovò. "Doveva essere agitata anche lei" pensò. "La prima donna presidente degli Stati Uniti: tutto il mondo, e chissà se anche oltre, ci guarderà. La guarderà."
Mentre la mente, emozionata e concentrata contemporaneamente, vagava tra l'infanzia, gli scontri in campagna elettorale, la moglie, le amicizie e il generoso lavoro, dimostrando che era possibile viaggiare nel tempo, con la migliore macchina mai costruita, il cervello, le gambe proseguivano quasi automaticamente lungo i corridoi del Campidoglio.
Decise di fermarsi, incerto dal possederne il permesso, a rivedere gli affreschi del Brumidi che allietavano i tristi muri dell'edificio, facendo risplendere di colori la storia degli Stati Uniti. Storia che, ne era certo, sarebbe cambiata. Una presidente donna, con nuove idee, forti e rivoluzionarie.
Era un onore per lui stare al suo fianco, anche se era preoccupato che il potere la potesse in qualche modo cambiare. "Non farti togliere il sorriso e il tuo pensiero": queste erano state le ultime parole dette alla Grant.
Era, come da copione, in leggero anticipo: osservò la National Statuary Hall Collection, con l'eccezionale statua del re Kamehameha. Era affascinato nell'osservare quanto una nazione così giovane, a confronto delle altre potenze mondiali, si fosse affermata in così poco tempo, cambiando gli equilibri geopolitici del globo. Questo che più di tutto lo affascinava: il cambiamento, una costante ricerca del bene, forse irrealizzabile ma, almeno secondo lui, idealmente perseguibile.
Il tempo era scaduto, le Hawaii, Panama, le guerre, la democrazia erano pensieri da lasciarsi alle spalle. Si apprestò rapidamente a riportarsi, quasi furtivamente, verso l'uscita del Campidoglio adorna in ogni sua parte, anche a terra, dove vi era un maestoso tappeto rosso. Avvicinandosi, come talpe apparivano reporter, giornalisti, videocamere. Deciso affrettò il passo, si stampò un sorriso finto, che riteneva necessario a nascondere la tensione, ed uscì verso la folla acclamante. Le porte si chiusero al suo passaggio.
Si sedette al suo posto riservato, dopo aver stretto qualche mano di esponenti di politica internazionale di primo livello, in prima fila. Accanto si sarebbe seduta la Grant, che arrivò subito dopo. Si scambiarono parole brevissime, istantanee di rassicurazione. Poi il torpore della gente, l'elettricità nell'aria e l'adrenalina dei profumi lo ipnotizzarono.
Si svegliò con un applauso e i clangori di trombe: si era appena reso conto di aver pronunciato "So help me God".
Aveva giurato come vicepresidente degli Stati Uniti.

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